Pressione e performance nello sport
Che si tratti di scuola, tempo libero e sport: Già in giovane età siamo confrontati con la pressione di performare nei settori più diversi. Ma cosa fare se la pressione diventa troppa? Una testimonianza personale della giocatrice professionista di calcio e di hockey su ghiaccio Kathrin Lehmann.
«You’re simply the best» canta Tina Turner nelle mie cuffie. Bacio il palo sinistro, salto in alto per toccare la traversa, bacio il palo destro, mi posiziono in mezzo alla porta e guardo verso la bandierina. Nella mia testa immagino come catturo una palla alta sopra le teste degli altri giocatori che saltano. Celebro questo movimento internamente, il mio cuore batte al ritmo della canzone, respiro con determinazione. Attendo con impazienza ogni calcio d’angolo, perché ho appena superato mentalmente una situazione che mi faceva paura. La musica mi mette le ali, l’ultima canzone che sento prima di un rigore è la marcia trionfale di Giuseppe Verdi dall’opera «Aida». Mi sento un tutt’uno con il campo da calcio, sento la forza della porta dietro di me, mi sento forte.
Migliore è la performance, maggiore è la pressione
È così che mi preparavo per le partite, mi piaceva giocare e mi manca. Per me, non c’era niente di meglio della partita, dello scontro diretto. Ho sempre voluto giocare con e contro i migliori. Quindi il mio obiettivo era quello di trovare un ambiente che soddisfacesse al meglio questo desiderio. Sapevo che il successo si crea con il corpo, il cuore e la mente.
Con il passare degli anni è migliorato il «palcoscenico professionale» su cui performavo. Questo significava che c’erano più soldi in ballo, il che a sua volta significava più pressione a causa delle aspettative dall’esterno e, naturalmente, c’era anche il subdolo scetticismo della società che era come un inarrestabile rimbalzare del pallone da una parete: «È impossibile giocare sia a calcio che a hockey su ghiaccio a un livello così alto». «Vedrai...», era scritto su questo pallone. Ma il mio continuo alternare tra calcio e hockey su ghiaccio era per me la cosa più normale al mondo, era la mia passione, il mio essere diversa. Era, tra le altre cose, ciò che mi distingueva.
«Decido io che musica ascoltare!»
Una pressione non solo esterna
Per quanto mi piacesse il mio successo e per quanto venissi ammirata, iniziarono a insinuarsi dei dubbi. Nella mia testa c’erano delle voci incessanti che dicevano: «Attenzione, se fai un errore, è colpa dell’hockey! Stai facendo troppo, il tuo corpo cederà, non puoi fare sia l’uno che l’altro a un livello così alto...»
Non ho prestato molta attenzione alle voci, ma erano sempre lì, come gocce di pioggia che tamburellano costantemente su un tavolino di metallo. E queste voci erano più forti quando ero stanca, emotiva o un po’ giù di tono. Il volume delle voci continuava ad aumentare fino a quando era diventato un intero coro che gridava incessantemente nella mia testa: «Tu devi» e «Niente errori». Le voci non erano piacevoli. E i dubbi e le preoccupazioni costanti mettevano a dura prova i miei nervi, perché agivano come un osservatore continuo e un sistema di allarme dall’esterno.
Improvvisamente le risate, il gioco, la sperimentazione creativa, la sicurezza mentale non erano più così facili. Questo mi ha portato a fare degli errori, a prendere a cuore ogni cosa detta dall’allenatore e a preoccuparmi di ogni aggettivo critico nei media. Le situazioni di gioco che mi mettevano ansia diventavano momenti davvero difficili. All’improvviso, i miei pensieri erano come una massa viscida e appiccicosa che diventava ancora più appiccicosa quando cercavo di schiarirmi le idee da me, simile a una gomma da masticare che non si riesce a staccare dalle dita.
Confidarsi con qualcuno può essere liberatorio
Ricordo molto chiaramente una certa notte quando ero al mio primo anno con il Bayern Monaco. Mi sono svegliata in un bagno di sudore perché avevo sognato situazioni di allenamento e gioco sul campo. Non riuscivo a scrollarmi di dosso questo sogno. Ero sveglia ma non riuscivo a spegnere la testa. Non riuscivo a riaddormentarmi, non potevo fare nulla.
Sapevo che non avrei mai più voluto avere una notte come quella, così intensa da non riuscire più a svegliarmi dal sogno. Non è da me! Mi sono sentita meglio quando ne ho parlato a una compagna di squadra. Anche lei giocava ai massimi livelli. Non parlava bene il tedesco. Ma è stato in qualche modo utile che lei non capisse tutto, ma sentisse esattamente quello che volevo dirle.
Ha detto solo: «Ka, tu sei qui, perché sei Ka.» Questa frase e questo momento mi hanno scosso. Il fatto di aver confidato a qualcuno come mi sentivo, di aver avuto qualcuno che mi ascoltasse, è stato molto importante per me in quel momento.
«Non tutto deve avere un senso, non tutto deve essere spiegato. Ed è bello che sia così.»
Autodeterminazione e consapevolezza
Ho cominciato a percepire le cose in modo molto consapevole, in momenti buoni, difficili e, soprattutto, in quelli completamente neutrali. Nei momenti neutrali, per esempio durante i lunghi viaggi in autobus, all’università o quando uscivo con amici che non avevano a che fare con lo sport, ero in grado di interagire in modo consapevole con ciò che mi circondava, osservare, esplorare e imparare cose su me stessa. Chi sta parlando in questo momento? Con chi ho voglia di parlare? Cosa sono riuscita a fare? Cosa era strano? Cosa mi ha fatto ridere? Quale orchestra sto ascoltando? Che tipo di musica ho voglia di ascoltare? A volte scrivevo come mi sentivo, a volte lo raccontavo ai miei cani, altre agli amici. Per me era importante articolare in qualche modo come mi sentivo.
E ho imparato che non tutto deve avere un senso, non tutto deve essere spiegato. Ed è bello che sia così. Vivendo con consapevolezza i momenti neutrali, ho sviluppato una tecnica semplice per trasformare i pensieri negativi ed essenzialmente superare i dubbi e le voci negative nella mia mente. Ho staccato la spina ai pensieri negativi, ho fatto un respiro profondo e ho cambiato musica. Decido io che musica ascoltare!