«Dovremmo confrontarci più spesso con la rabbia»
Il medico Gabor Maté spiega perché la rabbia ci salva dal dolore e perché dobbiamo riconnetterci come esseri umani.
Un’altra emozione difficile è la paura: come affrontarla?
Negare le proprie paure è facile. Ma le persone che lo fanno di solito hanno relazioni tossiche, dipendenze o si ammalano. C’è solo un motivo per cui fa paura affrontare le proprie paure: da bambini si ha bisogno di sostegno e comprensione per gestire le proprie emozioni. Abbiamo bisogno di adulti che le accettino, le affermino e diano loro lo spazio necessario. Ma molti bambini vengono lasciati soli con queste emozioni. Ed è per questo che le temiamo da adulti.
Cosa possiamo fare per perdere queste paure?
Spiego ai miei pazienti che hanno vissuto queste paure già da bambini. Perché allora non avevano il sostegno di cui avrebbero avuto bisogno ed erano indifesi. Non sarà mai più così come allora. Da adulti, abbiamo superato da tempo il peggio delle nostre paure. A chi si rivolge a me dico anche che hanno bisogno di aiuto. È qui che entrano in gioco gli amici, una comunità e le terapie. Da adulti siamo in grado di chiedere aiuto e trovare un ambiente sicuro per gestire le nostre paure.
Sembra semplice. Ma noi tutti sappiamo che lasciare andare il dolore emotivo è difficile. Ma perché facciamo così fatica a farlo?
Perché i vecchi schemi, come il bisogno di piacere a tutti, si sono sviluppati per buone ragioni. Ci hanno aiutato a evitare i conflitti con i nostri genitori durante la nostra infanzia. Quando un comportamento è legato a bisogni così fondamentali, è ancora più difficile rinunciarvi. Il nostro sistema nervoso è programmato come un computer e non è affatto facile riprogrammarlo. Inoltre, dopo molti decenni, dietro queste abitudini si nascondono anche molto dolore e tante paure, per cui continuiamo a reagire con gli stessi meccanismi di difesa. Per cambiare è necessario lavorare su sé stessi.
Ma come possiamo farlo in una società che nel complesso è più malata che sana?Penso che il capitalismo globalizzato abbia creato una cultura molto malsana per l’individuo. Ci separa dalla natura, isola le persone, ci costringe a comportamenti malsani, ci vende cibo spazzatura, ci rende dipendenti dalla tecnologia, ci dice che siamo soli e mette sotto pressione le famiglie, tanto che i bisogni dei bambini non possono più essere soddisfatti. Questa cultura deve assolutamente cambiare.
Nel suo ultimo libro, «The Myth of Normal» lei scrive che in futuro dobbiamo «guarire» come società. Come possiamo farlo?
Il problema è che per alcune persone questa società funziona benissimo. Nelle banche c’è del denaro che proviene dal brutale sfruttamento di persone di tutto il mondo. Per le persone che sfruttano, il sistema funziona benissimo. Non esiste un «noi» nella nostra società. In senso filosofico e spirituale, forse, ma sicuramente non in senso pratico. C’è chi ha ogni interesse a mantenere lo status quo. Quindi tutto ciò che si può fare come individuo è agire con onestà e sperare che le persone si rendano conto di cosa sta effettivamente accadendo. Dobbiamo renderci conto che come esseri umani siamo legati gli uni agli altri.
Come provare di nuovo questo tipo di legame?
Dobbiamo educare le persone. Dobbiamo spiegare agli insegnanti come si sviluppa il cervello e agli studenti di medicina la connessione tra mente e corpo. E dobbiamo insegnare ai bambini la competenza emotiva. La maggior parte di chi sconta una pena in carcere è solo una persona traumatizzata. Ma giudici e avvocati di solito non hanno mai sentito parlare di trauma psicologico. Potremmo evitare tanto male se riconoscessimo il dolore che le persone si portano dentro.
Cosa l’ha spinto a fare esattamente questo?
Recentemente ho letto una storia nelle memorie di mia cugina: quando avevo undici mesi, Budapest era sotto l’occupazione nazionalsocialista. Mia madre mi lasciò nelle mani di un estraneo che mi portò da parenti dove potevo vivere in condizioni leggermente migliori. Un giorno mi ammalai gravemente e mio zio rischiò la vita per trovare un medico di fede cristiana. Quando durante la visita sono scoppiato in lacrime, mia cugina mi ha accarezzato la testa e mi ha detto: non preoccuparti, prima o poi avrai l’occasione di ricambiare.
Il gesto di bontà che aveva ricevuto?
Esatto, ed è per questo che faccio quello che faccio. Sono stato abbandonato da neonato, ma è stato un grande atto d’amore da parte di mia madre, dei miei parenti, di questo medico e dell’universo. Ho semplicemente ricambiato. Tutta la mia vita ho voluto capire perché le persone soffrono così tanto e perché fanno soffrire così tanto gli altri. Più crescevo, più mi sono reso conto che sebbene ci sia tanto dolore in questo mondo, c’è anche tanto amore che possiamo ricambiare.